Piero F.
2005-12-09 15:23:59 UTC
Nel trattare il tema della bestemmia, quasi tutti i partecipanti al
thread hanno inteso come tale l'imprecazione blasfema, il moto
incontrollabile e momentaneo dell'ira (tornerò comunque in quel thread
per cercare di catalogare e razionalizzare i vari moventi); ma esiste
una blasfemia più intellettuale e meditata, come accennava il prof.
Sampietro nell'articolo iniziale, che non può essere ricondotta a
temporanei moti dell'animo, giacché richiede tempo e determinazione per
essere manifestata.
E' assodato che a un credente (che non per nulla si autodefinisce
*timorato* di Dio), appare blasfema ogni manifestazione intesa a negare
l'esistenza di Dio, o anche solo a dubitare delle doti - onniscienza,
onnipotenza - che gli vengono attribuite. Ma perché? Perché un credente
non si accontenta di comportarsi coerentemente con la propria fede, e
invece si adombra, si offende, si *spaventa*, per la blasfemia altrui?
Credo che in questo vi sia lo zampino del Vecchio Testamento, e cioè
l'immagine di un Dio geloso e vendicativo, capace di abbattere la sua
collera su un intero popolo, a causa di UN individuo che gli abbia
mancato di rispetto. Si veda p.es. il libro di Giosuè, l'intero cap. 7.
Questo TIMORE spiegherebbe anche la facilità con cui il clero medievale
riusciva a mobilitare i propri fedeli, analfabeti e ignoranti in
materia teologica, contro gli eretici che predicavano una diversa
lettura delle Scritture. Un villico del XIII secolo non capiva un'acca
dei termini della disputa, capiva solo che la sua inerzia e il suo
agnosticismo non lo avrebbero salvato dal castigo divino paventato dai
sacerdoti.
Ovviamente non corrono più quei mala tempora. Ma la blasfemia è tuttora
considerata un atteggiamento (come minimo) *disgustoso*, e in quanto
tale da bandire dal consesso civile.
Eppure, a partire dall'Illuminismo e via via attraverso le correnti
filosofiche materialiste e razionaliste dell'Ottocento, si sono battuti
in molti per contrastare quella che ai loro occhi pare una sciocca
superstizione primitiva. E l'hanno fatto scrivendo opere filosofiche
(Bertrand Russell, "Perché non sono cristiano"), coniando slogan (il
marxiano "la religione è l'oppio dei popoli"), ma soprattutto usando LA
SATIRA.
La satira è generalmente rivolta contro l'arroganza di un potere, e
nella fattispecie il potere clericale è stato oggetto di libelli
satirici per molti secoli. Famose le "pasquinate", cioè i libelli
antapapalini affissi alla statua del Pasquino, a Roma. Ma il fenomeno
anticlericale è testimoniato anche da famose argute battute, tipo "Il
prete è una persona che tutti chiamano Padre, tranne i figli, che lo
chiamano zio".
Qui intendo sollevare la questione (e tentare di darle una risposta) a
un altro fenomeno: quello della satira antireligiosa in sè, a
prescindere da ogni potere clericale.
Satirizzare, irridere una religione può apparire a prima vista un modo
poco costruttivo di fare propaganda all'ateismo. Occorre un senso
dell'umorismo, e un talento artistico, che potrebbero essere
considerati *sprecati* in una "pratica bassa" come la satira. E infatti
qualcuno, anche tra gli atei, non l'apprezza, e preferirebbe che si
combattesse la filosofia religiosa con una filosofia antireligiosa,
insomma con argomenti SERI, e non buttando tutto sul ridere.
A parte il fatto che tali opere filosofiche esistono già, come ho
ricordato, e che hanno avuto una manciata scarsa di lettori, gli
atei "seriosi" sembrano ignorare la micidiale funzione dissacratoria
del RISO. E sì che è riconosciuta implicatamente perfino da favolette
morali conosciutissime, come "I vestiti nuovi dell'Imperatore"!
La carica eversiva della risata è stata oggetto di riflessione da parte
di molta letteratura, dall'antichità ad oggi. Il detto "una risata vi
seppellirà" non è stato coniato di recente. Umberto Eco, per esempio,
fu colpito da un saggio di Baudelaire sulla *diabolicità* del riso, e
già nel 1962, trentenne, si lanciò in un paradossale "Elogio di
Franti", partendo proprio dalla caratteristica che Edmondo de Amicis
attribuiva a questo suo personaggio di "Cuore".
Franti è dipinto quale malvagio per antonomasia, perché ove gli altri
si commuovono, egli ride, sogghigna, sberleffa.
Il culmine della (giocosa) indignazione di Eco è raggiunto da una frase
che il de Amicis cerca maldestramente di ricalcare dal Manzoni ("La
sventurata rispose"):
«Tutti si voltarono a guardar Franti.
E quell'infame sorrise.»
A questo punto il giovane neolaurato Umberto Eco partiva per una delle
sue "provocazioni" semigoliardiche, che sarebbe diventata invece, a
distanza di anni, oggetto di seri studi.
Anche se il libro "Cuore" non c'entra assolutamente con l'argomento
blasfemia, è importante leggere quella "difesa del riso", in quanto
arma dialettica potente ed efficace. Come dirò poi, lo stesso Eco
avrebbe sviluppato in seguito questo concetto per renderlo più
attinente all'argomento "blasfemia" che stiamo trattando.
***
Ecco dunque profilarsi l'idea di un Franti come motivo metafisico nella
sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che
distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il
Bene all'ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo
ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto
ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il
Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che
una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in
realtà il ridente - o il sogghignante - altro non è che il maieuta di
una diversa società possibile.
Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il
Diabolico ed a vedervi il principio del Male. Agli occhi di Colui che
tutto sa, il riso non esiste, e scompare dal punto di vista della
scienza e delle potenze assolute; è chiaro: dal momento che di un
ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi
si assente dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente,
quest'ordine non può essere messo in dubbio, e il primo modo per
credervi è di non riderne.
Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si
integrano all'ordine, dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma
nel caso sia colpa dell'ordine? Chi sarà allora il Ridente? Colui che
ha avuto coscienza della caduta, e quindi della provvisorietà
dell'ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente
mangiato all'albero del bene e del male? Ma questa è l'interpretazione
del Ridente data da chi non ride, e accetta l'Ordine. [...]
Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi
ride, per ridere, e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve
accettare e credere, sia pure tra parentesi, ciò di cui ride, e ridere
dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore.
Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da ragazzi; ridete dell'usanza
di radersi, e poi discuteremo. Chi ride deve dunque essere figlio di
una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e quindi, da figlio
infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la
situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è
valido, quello che crolla doveva morire. E quindi il riso, l'ironia, la
beffa, il marameo, il fare il verso, il prendere a gàbbo, è alla fine
un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello che resiste
nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva
cadere). Tale è Franti.
[da "Elogio di Franti", 1962, ripubblicato in Diario Minimo, Mondadori]
***
Una ventina d'anni più tardi, Eco svilupperà questo concetto facendolo
diventare il perno intorno a cui ruota il suo primo (e più
rappresentativo) romanzo, "Il nome della rosa".
Uno dei testi perduti di Aristotele è la "Commedia", che trattava del
riso e della satira, a quanto risulta dagli accenni dei contemporanei
del filosofo. Nell'abbazia dove Eco ambienta la sua storia, e avvengono
misteriosi delitti, si immagina che esista l'unica copia sopravvissuta
di quell'opera aristotelica. Le pagine sono avvelenate, e chi sfoglia
il libro muore: ecco dov'è il mistero, brillantemente risolto dal frate
minorita Guglielmo di Baskerville. L'avvelenatore è il monaco
bibliotecario Jorge, che nel confronto finale con Guglielmo, spiega
così il suo gesto:
***
Il riso libera il villano dalla paura del diavolo. perché nella festa
degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque
controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della
paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia
in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di
signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artificl
arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il
capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell'intelletto
quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente
operazione del ventre. Che il riso sia proprio dell'uomo è segno del
nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte
come la tua trarrebbero l'estremo sillogismo, per cui il riso è il fine
dell'uomo! Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla
paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è
*timor di Dio*.
[...] Al villano che ride, in quel momento: non importa di morire: ma
poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo
il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe
nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte
attraverso l'affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature
peccatrici, senza la paura, forse il più provvido e affettuoso dei doni
divini?
La prudenza dei nostri padri ha fatto la sua scelta: se il riso è il
diletto della plebe, la licenza della plebe venga tenuta a freno e
umiliata, e intimorita con la severità. E la plebe non ha armi per
affinare il suo riso sino a farlo diventare strumento contro la serietà
dei pastori che devono condurla alla vita eterna e sottrarla alle
seduzioni del ventre, delle pudenda, del cibo, dei suoi sordidi
desideri. Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e
quindi parlando da filosofo, portasse l'arte del riso a condizione di
arma sottile, se alla retorica della convinzione si sostituisse la
retorica dell'irrisione, se alla topica della paziente e salvifica
costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica
dell'impaziente decostruzione e dello stravolgimento di tutte le
immagini più sante e venerabili - oh quel giorno anche tu e tutta la
tua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti!
[...] la chiesa deve saper imporre ancora una volta la regola del
conflitto. Non ci fa paura *la bestemmia*, perché anche nella
maledizione di Dio riconosciamo l'immagine stranita dell'ira di Geova
che maledice gli angeli ribelli. Non ci fa paura la violenza di chi
uccide i pastori in nome di qualche fantasia di rinnovamento, perché è
la stessa violenza dei principi che cercarono di distruggere il popolo
di Israele. Non ci fa paura il rigore del donatista, la follia suicida
del circoncellione, la lussuria del bogomilo, l'orgogliosa purezza
dell'albigese, il bisogno di sangue del flagellante, la vertigine del
male del fratello del libero spirito: li conosciamo tutti e conosciamo
la radice dei loro peccati che è la radice stessa della nostra santità.
Non ci fanno paura e soprattutto sappiamo come distruggerli, meglio,
come lasciare che si distruggano da soli [...] Anzi, vorrei dire, la
loro presenza ci è preziosa, si iscrive nel disegno di Dio, perché il
loro peccato incita la nostra virtù, la loro bestemmia incoraggia il
nostro canto di lode, la loro sregolata penitenza regola il nostro
gusto del sacrificio, la loro empietà fa risplendere la nostra pietà,
così come il principe delle tenebre è stato necessario, con la sua
ribellione e la sua disperazione, a far meglio rifulgere la gloria di
Dio, principio e fine di ogni speranza.
Ma se un giorno - e non più come eccezione plebea, ma come ascesi del
dotto, consegnata alla testimonianza indistruttibile della scrittura -
si facesse accettabile, e apparisse nobile, e liberale, e non più
meccanica, l'arte dell'irrisione, se un giorno qualcuno potesse dire
(ed essere ascoltato): io rido dell'Incarnazione... Allora non avremmo
armi per arrestare *quella* bestemmia, perché essa chiamerebbe a
raccolta le forze oscure della materia corporale, quelle che si
affermano nel peto e nel rutto, e il rutto e il peto si arrogherebbero
il diritto che è solo dello spirito, di spirare dove vuole!
[da "Il nome della rosa", 1980, Bompiani]
***
Che queste considerazioni siano conscie oppure inconscie negli autori
satirici, appare comunque chiaro che la blasfemia esercitata attraverso
scritti, disegni o altre arti figurative, non rappresenta affatto
una "pratica bassa", ma è anzi una forma di dissenso che affonda le sue
radici nel misterioso humus del *senso del ridicolo*. Sarà un caso che
il genere umano sia l'unico a conoscere il riso? Così come è l'unico
(mi pare) a fondare la propria struttura sociale attorno al concetto di
*dignità del potere*, che il riso rovescia impietosamente dimostrandone
l'assurdità (e qui ricordo ancora una volta l'apologo dei vestiti
dell'Imperatore...)
Volendo dare alcuni esempi di questa satira blasfema, di questo modo di
ridere del Sacro e del Divino, ma al contempo non desiderando turbare
chi, per educazione o profondo sentimento, si sentisse offeso da
accostamenti volgari e lubrichi (eh, sì, ci sono anche quelli...), mi
limiterò a un paio di citazioni, irriverenti ma non particolarmente
offensive.
Nel febbraio 1974 (la data è importante, come si vedrà in seguito) fece
il suo debutto su Linus una striscia intitolata TRINO, ideata e
disegnata da Francesco Tullio Altan.
"Trino" è un creatore di mondi, nell'aspetto richiama l'iconografia del
Dio cristiano, ma a dispetto della sua onnipotenza, è costantemente
umiliato dal suo *padrone*, un cinico e arrogante omaccione (stereotipo
di certi "cumenda" lombardi) che gli commissiona il "lavoro". Al
padrone interessa solo produrre ciò che "rende", e tratta Trino appunto
come un... creativo all'interno di un'azienda: lo rampogna perché crea
cose inutili, e lo fa controllare costantemente da un laido spione,
dalle fattezze d'ippopotamo.
Qui ho caricato la prima tavola della saga di Trino, una tavola tutto
sommato ancora innocua (ce ne sono di ben più dissacranti e feroci, ma
meglio non calcare la mano ;-))
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Sempre nei primi mesi del 1974 (e nemmeno questo è un caso...) venne
pubblicata la versione italiana di "Les aventures de Dieu",
originariamente apparsa sulla rivista francese Hara-Kiri nel 1971.
L'autore, il famigerato umorista iconoclasta Cavanna, vi dipinge un Dio
sadico e dispettoso, che si fa beffe per primo della stupidità e della
credulità degli uomini, e che se la gode un mondo a ricambiare con
diluvi, tempeste di fuoco, invasioni di cavallette e altre calamità, la
devozione del "suo" popolo.
Non è consigliabile, ovviamente, alle anime pie, anche perché, tra
testi e illustrazioni di contorno, ci sono tutti gli estremi del
*vilipendio*, e (per i tempi) anche quelli della pornografia.
Nell'edizione italiana molte immagini furono sostituite,
prudenzialmente, con altre meno "forti", e ne ho scelte alcune tra le
più accettabili, pur nella loro irriverenza. Si tratta di finte pagine
pubblicitarie inserite nella rivista, dove il sentimento religioso è
ridotto a *testimonial* per la vendita di prodotti (anche inesistenti):
allusione trasparente alla mercificazione strisciante della fede, ma
anche dissacrazione della fede stessa...
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Volendo citare una delle "avventure di Dio" senza scadere nella
volgarità, si resta in imbarazzo: proverò con quella che mi è sembrata
la meno scandalosa, ma non per questo meno rappresentativa dell'humour
di Cavanna: la Torre di Babele.
***
4- E avvenne che gli uomini trovarono una pianura nel paese di Scinear
e quivi si stanziarono.
5. E si dissero uno all'altro: Orsù facciamo dei mattoni e cuociamoli
col fuoco! E si valsero di mattoni invece che di pietre e di catrame
invece che di calcina.
6. E dissero: .Orsù edifichiamo una città e una torre di cui la cima
giunga fino al cielo, così saremo più vicini all'Eterno nostro Dio, la
nostra dimora sarà vicino alla Sua dimora e la domenica ci metteremo al
nostro balcone e anche Lui si metterà al Suo balcone e potremo
chiacchierare da buoni vicini. Certamente questo piacerà al Signore e
rallegrerà il Suo cuore..
7. Ora, ci costerà un lungo lavoro e grande fatica, ma siamo pronti a
sopportare tutto ciò affinché I'Eterno sia contento: L'odore del nostro
sudore gli sarà dolce e il crepitio dei crani spaccati dai mattoni che
cadranno dalle impalcature gli sarà armonioso.
8. Cosi fecero, ma grande è la presunzione della creatura che pretende
di indovinare che cosa piacerà all'Eterno.
9. Or l'Eterno udì un grande frastuono di cazzuole, di seghe e di
martelli che saliva dalla pianura di Scinear fino a Lui, e disse:
scendiamo a vedere cosa combinano.
10. E l'Eterno discese per vedere la città e la torre che i figliuoli
degli uomini edificavano.
11. E gli uomini correvano sulla pianura come formiche nere, e il
mattone si posava sul mattone, e il piano si aggiungeva al piano e la
torre si perdeva tra le nubi e la sua cima era già cosi vicina alla
volta del cielo che gli operai battevano la testa contro le stelle
quando si rialzavano.
12. Ora essi erano riusciti a realizzare questo solo per il loro
perfetto accordo e la loro grande disciplina e le loro cazzuole si
levavano tutte insieme come una sola cazzuola, e cantavano come una
sola voce una sola canzone, e quando, voltati verso Oriente come
vogliono i riti, sputavano tutti insieme sulle mani, la terra faceva un
piccolo salto e girava più in fretta.
13. L'Eterno vide tutto questo. Vide anche che la torre era quasi
finita e disse in cuor Suo: questa poi !
14. E l'Eterno si disse ancora: orsù, scendiamo e confondiamo le loro
lingue sicché l'uno non capisca il parlare dell'altro !
15. E l'Eterno alzò la Sua destra e disse: cosi sia!. E fu così.
16. Subito il muratore parlò friulano, lo sterratore parlò calabrese,
il manovale parlò siciliano, il capomastro parlò bresciano, l'ingegnere
parlò algebra, l'architetto parlò '500, l'impresario parlò americano,
il banchiere parlò ebraico, la puttana parlò francese, il labbro
leporino parlò col naso, e l'arredatore parlò col culo.
17. E se il muratore diceva al manovale: Manovale passami il filo a
piombo, allora il manovale gli versava un secchio di catrame bollente
sulla testa.
18. E se l'imbianchino dall'alto della scala diceva al ragazzo:
Ragazzo, tieni il pennello, allora il ragazzo toglieva la scala.
19. E se l'operaio diceva all'impresario: padrone non potresti alzare
leggermente il mio salario perché la vita diventa sempre più cara e la
mia figliolanza sempre più numerosa, tanto che la notte le mascelle
affamate dei miei bambini sbattono e mi impediscono di dormire?, allora
l'impresario gli faceva dare 50 colpi di frusta là dove fa più male.
20. E tutto questo in buona fede, perché non si comprendevano più gli
uni con gli altri.
21. Ed ecco che uno si mise a misurare per piedi e per pollici, l'altro
per cubiti reali, l'altro per membri di oste, l'altro per gambi di
ciliegia e per metri di salsiccia, l'altro per patate a ginocchio e
mani di mia sorella, l'altro per caccole di capra sacerdotale, per
tartarughe dei Mari del Sud, per getti di saliva contro il vento, o per
bastoni merdosi di P.S.
22. Allora la misura non fu più uguale alla misura, e il muro cominciò
a pendere e il pignone di mattoni fece le smorfie.
23. E ciascuno trattò l 'altro da forestiero, da terrone, da terra
ballerin, da sguangia bresciana, da polentone dei coglioni, da culatone
del cazzo, da yankee go home, da bastardo figlio di troia, da lurido
ladro, da sifilitico, da morto di fame.
24. E si presero per i capelli, e l'uomo fu un lupo per l'uomo, e il
fratello torse i testicoli al fratello,
25. E la cazzuola squartò le pance, e il piccone picconò gli occhi e il
sandalo scivolava sulle budella sparse,
26. E uno gridava: Porca Madonna!, e l 'altro gridava: Minchia !.
27. Ed essi gettarono via i loro attrezzi e si dispersero per tutta la
terra.
28. Così aveva voluto l'Eterno.
29. Allora il mattone non si alzò sul mattone, il piano non salì sul
piano e gli uccelli fecero i loro nidi nei capitelli delle fiere
colonne,
30. E la radice uscì dalla pietra e l'albero nacque dal muro
31. E il vento soffiò la sua sabbia, e la nube schizzò la sua pioggia,
32. Ed ecco: non c'era più torre, il tempo l'aveva mangiata.
33. E per questo, quel luogo fu chiamato Babele, che vuol dire: Parla
col mio culo, perché la mia testa è ammalata.
***
Non dubito che qualcuno non troverà affatto divertente questa satira,
benché io possa garantire che troverebbe assai meno divertente, fino al
punto di assumere un colore livido e giallastro, qualche altro episodio
delle "aventures"...
Ma questo è proprio l'effetto previsto da Eco nel suo elogio di Franti,
quando diceva che «il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto
mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col
volto del Male» (e, a proposito, ci sarebbe da mettere in conto
blasfemia anche il celeberrimo giornale satirico dal programmatico
nome "Il Male"...)
Ma chi si sentisse scandalizzato, si consoli ricordando che poi Eco
aggiungeva che «il riso, l'ironia, la beffa, il marameo, il fare il
verso, il prendere a gàbbo, è alla fine un servizio reso alla cosa
derisa, come per salvare quello che resiste, nonostante tutto, alla
critica interna.»
Se un credente inizia a pensare che queste manifestazioni satiriche
possano distruggere il senso religioso, vuol dire che non crede
abbastanza, che il tutto si riduce a un'infrastruttura che occorre *far
finta* che esista, come quei famosi vestiti invisibili :-)
Ma veniamo adesso a un ultimo punto interessante che interessa la
satira blasfema. E cioè il suo *uso politico*. Come ho sottolineato più
sopra, sia la striscia "Trino" di Altan, che l'edizione italiana
di "Les aventures de Dieu", apparvero in Italia nei primi mesi del
1974. La prima su Linus, di cui era direttore Oreste del Buono, e
l'altra presso l'editore Savelli, con una prefazione dello stesso OdB.
E appunto in quella prefazione c'è la chiave di questa offensiva
satirica. Chi si ricorda qual era il punto cruciale della politica e
della società civile nei primi mesi del 1974? La disfida di Barletta
tra lo schieramento laico e quello cattolico, rappresentato dal
REFERENDUM SUL DIVORZIO, uno strumento che (allora) faceva paura,
essendo la prima volta che veniva utilizzato in quasi trent'anni dalla
Costituzione. Una tensione che si poteva tagliare col coltello,
tant'era spessa. E in questo clima si spiega la decisione di Del Buono
di impegnare Linus (fino ad allora una rivista di
fumetti "intelligenti", ma avulsi da contesti ideologici) nella
battaglia anticlericale, e di promuovere nel proprio campo mediatico
qualsiasi iniziativa in grado di constrastare la capillare
organizzazione cattolica, coi suoi giornali, con la sua TV gestita dal
fanfaniano Bernabei, con i suoi parroci mobilitati come per una "guerra
santa".
Ecco dunque come Oreste del Buono, nella sua prefazione allo scandaloso
e blasfemo "Le avventure di Dio", rispondeva al richiamo all'ordine
dei cattolici (che temeva, come tanti, fosse vincente e risolutivo, e
invece...)
***
Chi è Cavanna (leggi, ovviamente, Cavannà, altrimenti farebbe meno
impressione)? E', all'aspetto, un truce omacciottone baffuto, che,
sotto Ia qualifica di redattore capo o qualcosa del genere di Hara-
Kiri, il periodico forse più sequestrato di Francia (tanto sequestrato
quasi da non poter essere considerato periodico), abbindola, anima,
agita, sospinge, squassa, sconquassa un gruppo di umoristi, da Wolinski
a Gebé, da Reiser a Willem, dediti all'ingiuria più che all'allusione,
all'aggressione più che alla presa in giro, al terrorismo più che alla
comicità. Un gruppo veramente calamitoso per le anime belle del
sistema, perché alla deliberata provocazione unisce una straordinaria
capacità di resa. Tranne che in buon gusto gli uomini di Cavanna sono
imbattibili. Ma. quando mai si è fatto qualcosa di serio, puntando
esclusivamente sul buon gusto?
Les aventures de Dieu, pubblicate in originale dal gruppo in questione
in un albo série bête et méchante, (ovvero sotto lo stesso insultante
sadomasochista giustificativo di Hara-Kiri), sono una raccolta di testi
e tavole in cui Cavanna sciorina, ostenta, sbatte in faccia tutto il
peggio di sé (che, con quasi ogni probabilità è il suo meglio). Una
raccolta che è facile considerare sacrilega, perché di essere
considerata sacrilega si propone. Ma è bene diffidare sempre dalle
prime impressioni, dalle impressioni facili. Così, visto il periodo
italiano in cui I'editore Savelli ha opportunamente deciso di fare
uscire questa versione de Les aventures de Dieu, proporrei, prima di
capitolare sulla prima facile impressione, di rivolgere a noi stessi
una domandina semplice semplice.
La domandina semplice semplice è la seguente: chi è veramente più
sacrilego, Cavanna o uno qualsiasi dei difensori d'ufficio di Dio in
circolazione dalle nostre parti? In questo periodo italiano (il periodo
d'incubazione del giorno del referendum sul divorzio con tanta
ineffabile casualità fissato dal presidente Leone per la festa della
Madonna) in questo periodo italiano abbiamo fatto a tempo a conoscerne
un discreto numero. Uno più evidente, uno più esplicito, uno più
flagrante dell'altro. Mai nessuno, è ovvio, che regga il paragone con
Fanfani. Fanfani (leggi, ovviamente, Fanfàni, ma farebbe ugualmente
impressione anche se si chiamasse Fànfani o Fanfanì), ... un nano che
lavora per sette, addirittura un Settenani.
[...] L'onorevole Settenani non combatte la religione. Fa di peggio,
molto di peggio. Se ne serve. Fa combattere la religione per lui. Se ne
serve a suo abuso e sconsumo. Fanfani non è con Dio. E' Dio che è con
lui. E' chiaro che il suo Dio diventa automaticamente più antipatico,
inconciliante, repulsivo. La solita storia che il cane finisce per
rassomigliare al padrone. Dio è meglio che non esista, se, esistendo,
potrebbe rassomigliare all'onorevole Settenani. Quanto è più simpatico,
conciliante, accattivante, il Dio di Cavanna, quello che meriterebbe di
esistere, e di fumare Pall-Mall.
***
Per ora, mi fermo qui :-)
Chi mi conosce sa che non sono capace di sintetizzare abbastanza, e mi
vengono sempre dei post lunghissimi. Ma ho sempre pensato che per
discutere con cognizione di causa di qualcosa, occorra conoscere ciò di
cui si parla. E se qualcuno non conosceva questi aspetti dell'umana...
laboriosità, e il pensiero non necessariamente povero e banale che vi è
sottinteso, adesso (spero) ne avrà almeno un'idea di massima.
thread hanno inteso come tale l'imprecazione blasfema, il moto
incontrollabile e momentaneo dell'ira (tornerò comunque in quel thread
per cercare di catalogare e razionalizzare i vari moventi); ma esiste
una blasfemia più intellettuale e meditata, come accennava il prof.
Sampietro nell'articolo iniziale, che non può essere ricondotta a
temporanei moti dell'animo, giacché richiede tempo e determinazione per
essere manifestata.
E' assodato che a un credente (che non per nulla si autodefinisce
*timorato* di Dio), appare blasfema ogni manifestazione intesa a negare
l'esistenza di Dio, o anche solo a dubitare delle doti - onniscienza,
onnipotenza - che gli vengono attribuite. Ma perché? Perché un credente
non si accontenta di comportarsi coerentemente con la propria fede, e
invece si adombra, si offende, si *spaventa*, per la blasfemia altrui?
Credo che in questo vi sia lo zampino del Vecchio Testamento, e cioè
l'immagine di un Dio geloso e vendicativo, capace di abbattere la sua
collera su un intero popolo, a causa di UN individuo che gli abbia
mancato di rispetto. Si veda p.es. il libro di Giosuè, l'intero cap. 7.
Questo TIMORE spiegherebbe anche la facilità con cui il clero medievale
riusciva a mobilitare i propri fedeli, analfabeti e ignoranti in
materia teologica, contro gli eretici che predicavano una diversa
lettura delle Scritture. Un villico del XIII secolo non capiva un'acca
dei termini della disputa, capiva solo che la sua inerzia e il suo
agnosticismo non lo avrebbero salvato dal castigo divino paventato dai
sacerdoti.
Ovviamente non corrono più quei mala tempora. Ma la blasfemia è tuttora
considerata un atteggiamento (come minimo) *disgustoso*, e in quanto
tale da bandire dal consesso civile.
Eppure, a partire dall'Illuminismo e via via attraverso le correnti
filosofiche materialiste e razionaliste dell'Ottocento, si sono battuti
in molti per contrastare quella che ai loro occhi pare una sciocca
superstizione primitiva. E l'hanno fatto scrivendo opere filosofiche
(Bertrand Russell, "Perché non sono cristiano"), coniando slogan (il
marxiano "la religione è l'oppio dei popoli"), ma soprattutto usando LA
SATIRA.
La satira è generalmente rivolta contro l'arroganza di un potere, e
nella fattispecie il potere clericale è stato oggetto di libelli
satirici per molti secoli. Famose le "pasquinate", cioè i libelli
antapapalini affissi alla statua del Pasquino, a Roma. Ma il fenomeno
anticlericale è testimoniato anche da famose argute battute, tipo "Il
prete è una persona che tutti chiamano Padre, tranne i figli, che lo
chiamano zio".
Qui intendo sollevare la questione (e tentare di darle una risposta) a
un altro fenomeno: quello della satira antireligiosa in sè, a
prescindere da ogni potere clericale.
Satirizzare, irridere una religione può apparire a prima vista un modo
poco costruttivo di fare propaganda all'ateismo. Occorre un senso
dell'umorismo, e un talento artistico, che potrebbero essere
considerati *sprecati* in una "pratica bassa" come la satira. E infatti
qualcuno, anche tra gli atei, non l'apprezza, e preferirebbe che si
combattesse la filosofia religiosa con una filosofia antireligiosa,
insomma con argomenti SERI, e non buttando tutto sul ridere.
A parte il fatto che tali opere filosofiche esistono già, come ho
ricordato, e che hanno avuto una manciata scarsa di lettori, gli
atei "seriosi" sembrano ignorare la micidiale funzione dissacratoria
del RISO. E sì che è riconosciuta implicatamente perfino da favolette
morali conosciutissime, come "I vestiti nuovi dell'Imperatore"!
La carica eversiva della risata è stata oggetto di riflessione da parte
di molta letteratura, dall'antichità ad oggi. Il detto "una risata vi
seppellirà" non è stato coniato di recente. Umberto Eco, per esempio,
fu colpito da un saggio di Baudelaire sulla *diabolicità* del riso, e
già nel 1962, trentenne, si lanciò in un paradossale "Elogio di
Franti", partendo proprio dalla caratteristica che Edmondo de Amicis
attribuiva a questo suo personaggio di "Cuore".
Franti è dipinto quale malvagio per antonomasia, perché ove gli altri
si commuovono, egli ride, sogghigna, sberleffa.
Il culmine della (giocosa) indignazione di Eco è raggiunto da una frase
che il de Amicis cerca maldestramente di ricalcare dal Manzoni ("La
sventurata rispose"):
«Tutti si voltarono a guardar Franti.
E quell'infame sorrise.»
A questo punto il giovane neolaurato Umberto Eco partiva per una delle
sue "provocazioni" semigoliardiche, che sarebbe diventata invece, a
distanza di anni, oggetto di seri studi.
Anche se il libro "Cuore" non c'entra assolutamente con l'argomento
blasfemia, è importante leggere quella "difesa del riso", in quanto
arma dialettica potente ed efficace. Come dirò poi, lo stesso Eco
avrebbe sviluppato in seguito questo concetto per renderlo più
attinente all'argomento "blasfemia" che stiamo trattando.
***
Ecco dunque profilarsi l'idea di un Franti come motivo metafisico nella
sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che
distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il
Bene all'ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo
ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto
ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il
Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che
una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in
realtà il ridente - o il sogghignante - altro non è che il maieuta di
una diversa società possibile.
Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il
Diabolico ed a vedervi il principio del Male. Agli occhi di Colui che
tutto sa, il riso non esiste, e scompare dal punto di vista della
scienza e delle potenze assolute; è chiaro: dal momento che di un
ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi
si assente dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente,
quest'ordine non può essere messo in dubbio, e il primo modo per
credervi è di non riderne.
Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si
integrano all'ordine, dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma
nel caso sia colpa dell'ordine? Chi sarà allora il Ridente? Colui che
ha avuto coscienza della caduta, e quindi della provvisorietà
dell'ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente
mangiato all'albero del bene e del male? Ma questa è l'interpretazione
del Ridente data da chi non ride, e accetta l'Ordine. [...]
Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi
ride, per ridere, e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve
accettare e credere, sia pure tra parentesi, ciò di cui ride, e ridere
dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore.
Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da ragazzi; ridete dell'usanza
di radersi, e poi discuteremo. Chi ride deve dunque essere figlio di
una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e quindi, da figlio
infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la
situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è
valido, quello che crolla doveva morire. E quindi il riso, l'ironia, la
beffa, il marameo, il fare il verso, il prendere a gàbbo, è alla fine
un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello che resiste
nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva
cadere). Tale è Franti.
[da "Elogio di Franti", 1962, ripubblicato in Diario Minimo, Mondadori]
***
Una ventina d'anni più tardi, Eco svilupperà questo concetto facendolo
diventare il perno intorno a cui ruota il suo primo (e più
rappresentativo) romanzo, "Il nome della rosa".
Uno dei testi perduti di Aristotele è la "Commedia", che trattava del
riso e della satira, a quanto risulta dagli accenni dei contemporanei
del filosofo. Nell'abbazia dove Eco ambienta la sua storia, e avvengono
misteriosi delitti, si immagina che esista l'unica copia sopravvissuta
di quell'opera aristotelica. Le pagine sono avvelenate, e chi sfoglia
il libro muore: ecco dov'è il mistero, brillantemente risolto dal frate
minorita Guglielmo di Baskerville. L'avvelenatore è il monaco
bibliotecario Jorge, che nel confronto finale con Guglielmo, spiega
così il suo gesto:
***
Il riso libera il villano dalla paura del diavolo. perché nella festa
degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque
controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della
paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia
in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di
signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artificl
arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il
capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell'intelletto
quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente
operazione del ventre. Che il riso sia proprio dell'uomo è segno del
nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte
come la tua trarrebbero l'estremo sillogismo, per cui il riso è il fine
dell'uomo! Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla
paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è
*timor di Dio*.
[...] Al villano che ride, in quel momento: non importa di morire: ma
poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo
il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe
nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte
attraverso l'affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature
peccatrici, senza la paura, forse il più provvido e affettuoso dei doni
divini?
La prudenza dei nostri padri ha fatto la sua scelta: se il riso è il
diletto della plebe, la licenza della plebe venga tenuta a freno e
umiliata, e intimorita con la severità. E la plebe non ha armi per
affinare il suo riso sino a farlo diventare strumento contro la serietà
dei pastori che devono condurla alla vita eterna e sottrarla alle
seduzioni del ventre, delle pudenda, del cibo, dei suoi sordidi
desideri. Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e
quindi parlando da filosofo, portasse l'arte del riso a condizione di
arma sottile, se alla retorica della convinzione si sostituisse la
retorica dell'irrisione, se alla topica della paziente e salvifica
costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica
dell'impaziente decostruzione e dello stravolgimento di tutte le
immagini più sante e venerabili - oh quel giorno anche tu e tutta la
tua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti!
[...] la chiesa deve saper imporre ancora una volta la regola del
conflitto. Non ci fa paura *la bestemmia*, perché anche nella
maledizione di Dio riconosciamo l'immagine stranita dell'ira di Geova
che maledice gli angeli ribelli. Non ci fa paura la violenza di chi
uccide i pastori in nome di qualche fantasia di rinnovamento, perché è
la stessa violenza dei principi che cercarono di distruggere il popolo
di Israele. Non ci fa paura il rigore del donatista, la follia suicida
del circoncellione, la lussuria del bogomilo, l'orgogliosa purezza
dell'albigese, il bisogno di sangue del flagellante, la vertigine del
male del fratello del libero spirito: li conosciamo tutti e conosciamo
la radice dei loro peccati che è la radice stessa della nostra santità.
Non ci fanno paura e soprattutto sappiamo come distruggerli, meglio,
come lasciare che si distruggano da soli [...] Anzi, vorrei dire, la
loro presenza ci è preziosa, si iscrive nel disegno di Dio, perché il
loro peccato incita la nostra virtù, la loro bestemmia incoraggia il
nostro canto di lode, la loro sregolata penitenza regola il nostro
gusto del sacrificio, la loro empietà fa risplendere la nostra pietà,
così come il principe delle tenebre è stato necessario, con la sua
ribellione e la sua disperazione, a far meglio rifulgere la gloria di
Dio, principio e fine di ogni speranza.
Ma se un giorno - e non più come eccezione plebea, ma come ascesi del
dotto, consegnata alla testimonianza indistruttibile della scrittura -
si facesse accettabile, e apparisse nobile, e liberale, e non più
meccanica, l'arte dell'irrisione, se un giorno qualcuno potesse dire
(ed essere ascoltato): io rido dell'Incarnazione... Allora non avremmo
armi per arrestare *quella* bestemmia, perché essa chiamerebbe a
raccolta le forze oscure della materia corporale, quelle che si
affermano nel peto e nel rutto, e il rutto e il peto si arrogherebbero
il diritto che è solo dello spirito, di spirare dove vuole!
[da "Il nome della rosa", 1980, Bompiani]
***
Che queste considerazioni siano conscie oppure inconscie negli autori
satirici, appare comunque chiaro che la blasfemia esercitata attraverso
scritti, disegni o altre arti figurative, non rappresenta affatto
una "pratica bassa", ma è anzi una forma di dissenso che affonda le sue
radici nel misterioso humus del *senso del ridicolo*. Sarà un caso che
il genere umano sia l'unico a conoscere il riso? Così come è l'unico
(mi pare) a fondare la propria struttura sociale attorno al concetto di
*dignità del potere*, che il riso rovescia impietosamente dimostrandone
l'assurdità (e qui ricordo ancora una volta l'apologo dei vestiti
dell'Imperatore...)
Volendo dare alcuni esempi di questa satira blasfema, di questo modo di
ridere del Sacro e del Divino, ma al contempo non desiderando turbare
chi, per educazione o profondo sentimento, si sentisse offeso da
accostamenti volgari e lubrichi (eh, sì, ci sono anche quelli...), mi
limiterò a un paio di citazioni, irriverenti ma non particolarmente
offensive.
Nel febbraio 1974 (la data è importante, come si vedrà in seguito) fece
il suo debutto su Linus una striscia intitolata TRINO, ideata e
disegnata da Francesco Tullio Altan.
"Trino" è un creatore di mondi, nell'aspetto richiama l'iconografia del
Dio cristiano, ma a dispetto della sua onnipotenza, è costantemente
umiliato dal suo *padrone*, un cinico e arrogante omaccione (stereotipo
di certi "cumenda" lombardi) che gli commissiona il "lavoro". Al
padrone interessa solo produrre ciò che "rende", e tratta Trino appunto
come un... creativo all'interno di un'azienda: lo rampogna perché crea
cose inutili, e lo fa controllare costantemente da un laido spione,
dalle fattezze d'ippopotamo.
Qui ho caricato la prima tavola della saga di Trino, una tavola tutto
sommato ancora innocua (ce ne sono di ben più dissacranti e feroci, ma
meglio non calcare la mano ;-))
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Sempre nei primi mesi del 1974 (e nemmeno questo è un caso...) venne
pubblicata la versione italiana di "Les aventures de Dieu",
originariamente apparsa sulla rivista francese Hara-Kiri nel 1971.
L'autore, il famigerato umorista iconoclasta Cavanna, vi dipinge un Dio
sadico e dispettoso, che si fa beffe per primo della stupidità e della
credulità degli uomini, e che se la gode un mondo a ricambiare con
diluvi, tempeste di fuoco, invasioni di cavallette e altre calamità, la
devozione del "suo" popolo.
Non è consigliabile, ovviamente, alle anime pie, anche perché, tra
testi e illustrazioni di contorno, ci sono tutti gli estremi del
*vilipendio*, e (per i tempi) anche quelli della pornografia.
Nell'edizione italiana molte immagini furono sostituite,
prudenzialmente, con altre meno "forti", e ne ho scelte alcune tra le
più accettabili, pur nella loro irriverenza. Si tratta di finte pagine
pubblicitarie inserite nella rivista, dove il sentimento religioso è
ridotto a *testimonial* per la vendita di prodotti (anche inesistenti):
allusione trasparente alla mercificazione strisciante della fede, ma
anche dissacrazione della fede stessa...
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Volendo citare una delle "avventure di Dio" senza scadere nella
volgarità, si resta in imbarazzo: proverò con quella che mi è sembrata
la meno scandalosa, ma non per questo meno rappresentativa dell'humour
di Cavanna: la Torre di Babele.
***
4- E avvenne che gli uomini trovarono una pianura nel paese di Scinear
e quivi si stanziarono.
5. E si dissero uno all'altro: Orsù facciamo dei mattoni e cuociamoli
col fuoco! E si valsero di mattoni invece che di pietre e di catrame
invece che di calcina.
6. E dissero: .Orsù edifichiamo una città e una torre di cui la cima
giunga fino al cielo, così saremo più vicini all'Eterno nostro Dio, la
nostra dimora sarà vicino alla Sua dimora e la domenica ci metteremo al
nostro balcone e anche Lui si metterà al Suo balcone e potremo
chiacchierare da buoni vicini. Certamente questo piacerà al Signore e
rallegrerà il Suo cuore..
7. Ora, ci costerà un lungo lavoro e grande fatica, ma siamo pronti a
sopportare tutto ciò affinché I'Eterno sia contento: L'odore del nostro
sudore gli sarà dolce e il crepitio dei crani spaccati dai mattoni che
cadranno dalle impalcature gli sarà armonioso.
8. Cosi fecero, ma grande è la presunzione della creatura che pretende
di indovinare che cosa piacerà all'Eterno.
9. Or l'Eterno udì un grande frastuono di cazzuole, di seghe e di
martelli che saliva dalla pianura di Scinear fino a Lui, e disse:
scendiamo a vedere cosa combinano.
10. E l'Eterno discese per vedere la città e la torre che i figliuoli
degli uomini edificavano.
11. E gli uomini correvano sulla pianura come formiche nere, e il
mattone si posava sul mattone, e il piano si aggiungeva al piano e la
torre si perdeva tra le nubi e la sua cima era già cosi vicina alla
volta del cielo che gli operai battevano la testa contro le stelle
quando si rialzavano.
12. Ora essi erano riusciti a realizzare questo solo per il loro
perfetto accordo e la loro grande disciplina e le loro cazzuole si
levavano tutte insieme come una sola cazzuola, e cantavano come una
sola voce una sola canzone, e quando, voltati verso Oriente come
vogliono i riti, sputavano tutti insieme sulle mani, la terra faceva un
piccolo salto e girava più in fretta.
13. L'Eterno vide tutto questo. Vide anche che la torre era quasi
finita e disse in cuor Suo: questa poi !
14. E l'Eterno si disse ancora: orsù, scendiamo e confondiamo le loro
lingue sicché l'uno non capisca il parlare dell'altro !
15. E l'Eterno alzò la Sua destra e disse: cosi sia!. E fu così.
16. Subito il muratore parlò friulano, lo sterratore parlò calabrese,
il manovale parlò siciliano, il capomastro parlò bresciano, l'ingegnere
parlò algebra, l'architetto parlò '500, l'impresario parlò americano,
il banchiere parlò ebraico, la puttana parlò francese, il labbro
leporino parlò col naso, e l'arredatore parlò col culo.
17. E se il muratore diceva al manovale: Manovale passami il filo a
piombo, allora il manovale gli versava un secchio di catrame bollente
sulla testa.
18. E se l'imbianchino dall'alto della scala diceva al ragazzo:
Ragazzo, tieni il pennello, allora il ragazzo toglieva la scala.
19. E se l'operaio diceva all'impresario: padrone non potresti alzare
leggermente il mio salario perché la vita diventa sempre più cara e la
mia figliolanza sempre più numerosa, tanto che la notte le mascelle
affamate dei miei bambini sbattono e mi impediscono di dormire?, allora
l'impresario gli faceva dare 50 colpi di frusta là dove fa più male.
20. E tutto questo in buona fede, perché non si comprendevano più gli
uni con gli altri.
21. Ed ecco che uno si mise a misurare per piedi e per pollici, l'altro
per cubiti reali, l'altro per membri di oste, l'altro per gambi di
ciliegia e per metri di salsiccia, l'altro per patate a ginocchio e
mani di mia sorella, l'altro per caccole di capra sacerdotale, per
tartarughe dei Mari del Sud, per getti di saliva contro il vento, o per
bastoni merdosi di P.S.
22. Allora la misura non fu più uguale alla misura, e il muro cominciò
a pendere e il pignone di mattoni fece le smorfie.
23. E ciascuno trattò l 'altro da forestiero, da terrone, da terra
ballerin, da sguangia bresciana, da polentone dei coglioni, da culatone
del cazzo, da yankee go home, da bastardo figlio di troia, da lurido
ladro, da sifilitico, da morto di fame.
24. E si presero per i capelli, e l'uomo fu un lupo per l'uomo, e il
fratello torse i testicoli al fratello,
25. E la cazzuola squartò le pance, e il piccone picconò gli occhi e il
sandalo scivolava sulle budella sparse,
26. E uno gridava: Porca Madonna!, e l 'altro gridava: Minchia !.
27. Ed essi gettarono via i loro attrezzi e si dispersero per tutta la
terra.
28. Così aveva voluto l'Eterno.
29. Allora il mattone non si alzò sul mattone, il piano non salì sul
piano e gli uccelli fecero i loro nidi nei capitelli delle fiere
colonne,
30. E la radice uscì dalla pietra e l'albero nacque dal muro
31. E il vento soffiò la sua sabbia, e la nube schizzò la sua pioggia,
32. Ed ecco: non c'era più torre, il tempo l'aveva mangiata.
33. E per questo, quel luogo fu chiamato Babele, che vuol dire: Parla
col mio culo, perché la mia testa è ammalata.
***
Non dubito che qualcuno non troverà affatto divertente questa satira,
benché io possa garantire che troverebbe assai meno divertente, fino al
punto di assumere un colore livido e giallastro, qualche altro episodio
delle "aventures"...
Ma questo è proprio l'effetto previsto da Eco nel suo elogio di Franti,
quando diceva che «il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto
mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col
volto del Male» (e, a proposito, ci sarebbe da mettere in conto
blasfemia anche il celeberrimo giornale satirico dal programmatico
nome "Il Male"...)
Ma chi si sentisse scandalizzato, si consoli ricordando che poi Eco
aggiungeva che «il riso, l'ironia, la beffa, il marameo, il fare il
verso, il prendere a gàbbo, è alla fine un servizio reso alla cosa
derisa, come per salvare quello che resiste, nonostante tutto, alla
critica interna.»
Se un credente inizia a pensare che queste manifestazioni satiriche
possano distruggere il senso religioso, vuol dire che non crede
abbastanza, che il tutto si riduce a un'infrastruttura che occorre *far
finta* che esista, come quei famosi vestiti invisibili :-)
Ma veniamo adesso a un ultimo punto interessante che interessa la
satira blasfema. E cioè il suo *uso politico*. Come ho sottolineato più
sopra, sia la striscia "Trino" di Altan, che l'edizione italiana
di "Les aventures de Dieu", apparvero in Italia nei primi mesi del
1974. La prima su Linus, di cui era direttore Oreste del Buono, e
l'altra presso l'editore Savelli, con una prefazione dello stesso OdB.
E appunto in quella prefazione c'è la chiave di questa offensiva
satirica. Chi si ricorda qual era il punto cruciale della politica e
della società civile nei primi mesi del 1974? La disfida di Barletta
tra lo schieramento laico e quello cattolico, rappresentato dal
REFERENDUM SUL DIVORZIO, uno strumento che (allora) faceva paura,
essendo la prima volta che veniva utilizzato in quasi trent'anni dalla
Costituzione. Una tensione che si poteva tagliare col coltello,
tant'era spessa. E in questo clima si spiega la decisione di Del Buono
di impegnare Linus (fino ad allora una rivista di
fumetti "intelligenti", ma avulsi da contesti ideologici) nella
battaglia anticlericale, e di promuovere nel proprio campo mediatico
qualsiasi iniziativa in grado di constrastare la capillare
organizzazione cattolica, coi suoi giornali, con la sua TV gestita dal
fanfaniano Bernabei, con i suoi parroci mobilitati come per una "guerra
santa".
Ecco dunque come Oreste del Buono, nella sua prefazione allo scandaloso
e blasfemo "Le avventure di Dio", rispondeva al richiamo all'ordine
dei cattolici (che temeva, come tanti, fosse vincente e risolutivo, e
invece...)
***
Chi è Cavanna (leggi, ovviamente, Cavannà, altrimenti farebbe meno
impressione)? E', all'aspetto, un truce omacciottone baffuto, che,
sotto Ia qualifica di redattore capo o qualcosa del genere di Hara-
Kiri, il periodico forse più sequestrato di Francia (tanto sequestrato
quasi da non poter essere considerato periodico), abbindola, anima,
agita, sospinge, squassa, sconquassa un gruppo di umoristi, da Wolinski
a Gebé, da Reiser a Willem, dediti all'ingiuria più che all'allusione,
all'aggressione più che alla presa in giro, al terrorismo più che alla
comicità. Un gruppo veramente calamitoso per le anime belle del
sistema, perché alla deliberata provocazione unisce una straordinaria
capacità di resa. Tranne che in buon gusto gli uomini di Cavanna sono
imbattibili. Ma. quando mai si è fatto qualcosa di serio, puntando
esclusivamente sul buon gusto?
Les aventures de Dieu, pubblicate in originale dal gruppo in questione
in un albo série bête et méchante, (ovvero sotto lo stesso insultante
sadomasochista giustificativo di Hara-Kiri), sono una raccolta di testi
e tavole in cui Cavanna sciorina, ostenta, sbatte in faccia tutto il
peggio di sé (che, con quasi ogni probabilità è il suo meglio). Una
raccolta che è facile considerare sacrilega, perché di essere
considerata sacrilega si propone. Ma è bene diffidare sempre dalle
prime impressioni, dalle impressioni facili. Così, visto il periodo
italiano in cui I'editore Savelli ha opportunamente deciso di fare
uscire questa versione de Les aventures de Dieu, proporrei, prima di
capitolare sulla prima facile impressione, di rivolgere a noi stessi
una domandina semplice semplice.
La domandina semplice semplice è la seguente: chi è veramente più
sacrilego, Cavanna o uno qualsiasi dei difensori d'ufficio di Dio in
circolazione dalle nostre parti? In questo periodo italiano (il periodo
d'incubazione del giorno del referendum sul divorzio con tanta
ineffabile casualità fissato dal presidente Leone per la festa della
Madonna) in questo periodo italiano abbiamo fatto a tempo a conoscerne
un discreto numero. Uno più evidente, uno più esplicito, uno più
flagrante dell'altro. Mai nessuno, è ovvio, che regga il paragone con
Fanfani. Fanfani (leggi, ovviamente, Fanfàni, ma farebbe ugualmente
impressione anche se si chiamasse Fànfani o Fanfanì), ... un nano che
lavora per sette, addirittura un Settenani.
[...] L'onorevole Settenani non combatte la religione. Fa di peggio,
molto di peggio. Se ne serve. Fa combattere la religione per lui. Se ne
serve a suo abuso e sconsumo. Fanfani non è con Dio. E' Dio che è con
lui. E' chiaro che il suo Dio diventa automaticamente più antipatico,
inconciliante, repulsivo. La solita storia che il cane finisce per
rassomigliare al padrone. Dio è meglio che non esista, se, esistendo,
potrebbe rassomigliare all'onorevole Settenani. Quanto è più simpatico,
conciliante, accattivante, il Dio di Cavanna, quello che meriterebbe di
esistere, e di fumare Pall-Mall.
***
Per ora, mi fermo qui :-)
Chi mi conosce sa che non sono capace di sintetizzare abbastanza, e mi
vengono sempre dei post lunghissimi. Ma ho sempre pensato che per
discutere con cognizione di causa di qualcosa, occorra conoscere ciò di
cui si parla. E se qualcuno non conosceva questi aspetti dell'umana...
laboriosità, e il pensiero non necessariamente povero e banale che vi è
sottinteso, adesso (spero) ne avrà almeno un'idea di massima.
--
Piero F.
Piero F.